Viaggio come vita
I am a part of all that I have met;
Yet all experience is an arch wherethrought
Gleams that untravelled world, whose margin fades
For ever and for ever when I move
Esiste un archetipo che accompagna da sempre tutta la storia artistica dell’umanità. E’ una categoria che contiene una quantità di significati e di significanti pressocchè infinita, tutti riconducibili, però, ad un minimo comune denominatore: il viaggio. Attraverso un procedimento di attuazione metaforica, infatti, siamo in grado di attribuire alle opere più disparate una comunanza concettuale e simbolica che le assimila tutte: una chiave di lettura che presuppone un codice non-scritto di elementi fondativi e che ci permette di accostare (con le dovute precauzioni, s’intende) l’Odissea alla Divina Commedia, i diari di Colombo a Le Voyage dans la Lune dei Lumière, l’Ulysses di Joyce al Don Chiscotte. In linea generale risulta semplice individuare nello “spostamento” uno dei concetti costitutivi dell’archetipo viaggio.
Viaggiare vuol dire andare da un luogo ad un altro. È quindi, sostanzialmente, un mutare il proprio contesto geografico. Questo spostamento, è ovvio, può avvenire nelle modalità e nei tempi più diversi (questi, però, assolutamente non incidono sul riconoscimento formale della categoria e per il momento possiamo non occuparcene). In primo luogo quindi, e in termini squisitamente linguistici, il mutamento si attua in caratteri locativi: da un punto A ad un punto B.
Questa è la condizione necessaria e sufficiente perché si possa parlare di “viaggio”: riconosciuto il proprio luogo si tende verso un altro che sia oltre e diverso dal primo. I confini dell’equazione formale vengono delineati, quindi, da un dato noto (il punto di partenza) e una variabile incognita (il luogo da “viaggiare”). E’ inoltre importante sottolineare quanto questa variabile, il punto B, non si presenti necessarimente come il punto d’arrivo, non presupponga, quindi, una fine, ma anzi, suggerisca un processo continuo quasi ad infinitum. Tutto ciò solo ed esclusivamente, abbiamo detto, dal punto di vista formale. A qualificare sostanzialmente il significato di questo processo è, invece, il meccanismo mentale che si attiva nel viaggio. Forse la schematizzazione più illuminante a tale proposito possiamo prenderla in prestito dalla filosofia Hegel correndo volentieri il rischio di risultare seplicistici e riduttivi: il processo gnoseologico hegeliano si basa sull’incontro/scontro fra tesi e antitesi che determina un risultato (sintesi) che si svolge ad un livello più alto e che fonda, in sostanza, lo scarto conoscitivo.
Ora, quel potente e produttivo motore che è la metafora, fa germogliare spontaneamente nei termini formali della categoria “viaggio” i presupposti della conoscenza. Porsi di fronte a “luoghi” sconosciuti facendoli nostri (confrontandoli, cioè, con ciò che noi conosciamo) ci permette di ri-conoscerci e di rivedere noi stessi alla luce di nuove scoperte. Rendere l’ignoto noto per avvicinarci al significato dell’esistenza. Il passaggio che giustifica l’assimilazione al “viaggio” anche in opere che con lo spostamento geografico hanno poco a che fare risulta evidente. Non è più lo spostamento di luogo tout court inteso come identità spaziale a individuare e caratterizzare l’archetipo “viaggio”, quanto lo spostamento conoscitivo (dall’ignoto al noto1Mi sembra ovvia l’inversione terminologica), la luminosa conquista interiore di un noumeno oscuro e, infine, l’aquisizione mentale di un territorio metafisico “altro”2“I am not a normal filmmaker. What I am doing is making my masterwork, which is my soul. To make a picture, for me is to make my self. When I say my self, I mean the big self.” Hury Hertz, intervista ad A. Jodorowsky, http://www.hotweird.com/jodorowsky/thirdrail.html (link attivo nel 1999).
Jodorowsky ha fatto del viaggiare l’essenza stessa del suo cinema (nonché della sua stessa vita) verificando ed esplorando tutte le possibili vie che questo verbo mette a disposizione. Il suo muoversi incessantemente da un “posto ad un altro” è indice di una curiosità3Vorrei suggerire un’affascinante etimologia del aggettivo “curioso” facendolo derivare dall’avverbio interrogativo latino “cur”: “perché”, delineando quindi nel curioso una personalità dedita incessantemente a chiedersi il perché delle cose indefessa accompagnata da una insoddisfazione perenne nei confronti di tutto ciò che istituzionalmente è imposto. È proprio questo atteggiamento che gli ha permesso di divenire uno fra i più affascinanti creatori di universi. Universi in cui viaggiare, ovviamente, con obbiettivi e mète da raggiungere e superare. Universi paralleli lontani anni luce dalla realtà ma al contempo direttamente generati da essa come riflessi deformati che magicamente palesano la loro filiazione. Universi che contengono utopie, “luoghi mitici” cui aspirare e tendere, verso cui intraprendere un viaggio; ma che, proprio in quanto mitici, rimangono inesorabilmente irraggiungibili.
Scorrendo la filmografia del regista – ma si potrebbe giustificare la stessa analisi per molte altre opere dell’autore – emergono evidenti i tratti di questi luoghi. Uno fra tutti è quello attribuito alla morte come soglia verso l’Utopia. Tar (il paese incantato di Fando y Lis), è l’Eden dove nuovi Adamo ed Eva vogliono tornare, disposti ad attraversare una waste land “corrotta e mentale che rispecchia la loro impotenza e i loro traumi infantili” 4Massimo Monteleone, op.cit., p 24; è un’utopia geografica/spirituale per sua natura inattuabile. Occorre, infatti, morire o suicidarsi per ritrovare l’armonia perduta di quella terra. Il mondo sotterraneo abitato dalla talpa (El Topo), costringe l’animale a scavare infiniti cunicoli alla ricerca della luce5Un voice over all’inizio del film cita: “La talpa è un animale che scava gallerie sotto la terra cercando la luce. Ma quando finalmente arriva alla luce, diventa cieca.” ma proprio la speranza di poter “illuminarsi” sortirà un effetto contrario che porterà la talpa alla cecità. Senza considerare l’ambigua valenza dell’essere ciechi (se positiva o negativa), è certo che il protagonista, incapace di adempiere alla propria missione, si uccide, lasciando indirettamente al bimbo avuto con Mara, e quindi ad una nuova generazione e ad un nuovo ciclo vitale, il compitio di completare ciò che lui ha iniziato. Un’altra volta la mèta appare raggiungibile solo varcando la soglia sepolcrale. La Montagna Sacra risulta invece invalicabile nel solo contesto filmico. È la prova generale di quello che lo spettatore, dopo aver visto la pellicola, dovrebbe fare uscito dalla sala: “Non siamo che immagini, sogni, fotografie. Non dobbiamo restare qui. Questa è maya. La vita reale ci attende” 6Da La Montagna Sacra di Alexandro Jodorowsky , 1973. L’alchimista Jodorowsky si è preso gioco dei suoi discepoli e fa di un film un rito alchemico7Vedi a tale prorposito il capitolo ad esso dedicato a tutti gli effetti che ha per mèta l’autocoscienza e la liberazione dai fantasmi dell’oppressione.
Anche in questo caso il raggiungimento della mèta non appartiene ai protagonisti, i quali, scomparendo (estinguendosi) dalla scena, un’altra volta delegano alla “nuova generazione di spettatori/attori” la conquista della vetta sacra. Ancora più evidente è l’esempio di Felix, la fenicie di Santa Sangre condannato ad un doloroso calvario psichico e spirituale (quanto mai granguignolesco), che lo farà risorgere dalle sue ceneri concedendogli la salute mentale: “questo è solo un livello, ma è l’inevitabile punto di partenza per ascesi ulteriori”8M. Monteleone, op. cit.,p. 46. E non è un caso che la scena più esplicita di The Rainbow Thief sia quella biblica del Diluvio Universale, pioggia portatrice della morte e della fertilità che rigenererà il genere umano: “Il mistero non è la morte, amico mio. È qui nelle profondità delle fogne! La rivelazione è giunta a me! […] Meleagre è qui per dirigerti, cosicchè a tua volta possa guidare il mondo…”9Profezia del principe a Dima in The Raimbow Thief.
Il presupposto per raggiungere Utopia, quindi è quello di rinunciare al proprio status – inteso nel senso più ampio del termine. Ogni condizione che presupponga un concetto di stasi risulta caratterizzata da un segno negativo. Gli universi di Jodorowsky rappresentano il moto continuo e da esso sono governati. E in questi universi chi si ferma è perduto. Rinunciare a viaggiare è il segno della sconfitta nei confronti dei propri ideali.
Cronos, Mandala e Perfezione
“…But what we do determine oft we break.
Purpose is but the slave to memory,
Of violent birth, but poor validity,
Which now, like fruit unripe, sticks on the tree,
But fall unshaken when they mellow be.
Most necessary ‘tis that we forget
To pay ourselves what to ourselves is debt.
The passion ending, doth the purpose lose.
The violence of either grief or joy
Their own enactures with themselves destroy.
Where joy most revels, grief doth most lament.
Grief joys, joy grief, on slender accident.
This world is not for aye, nor ‘tis not strange
That even our loves should with our fortunes change.
For ‘tis a question left us yet to prove,
Whether love lead fortune, or else fortune love.
The great man down, you mark his favourite flies.
The poor asvanced makes friends of enemies.
And hithertodoth love on fortune tend,
For who not needs shall never lack a friend,
And who in want a hollow friend doth try
Directly seasons him his enemy.
But, orderly to end where i begun,
Our wills and fates do so contrary run
That our devices stil are overthrown.
Our thoughts are ours, their ends none of our own.”
“Questo mondo non è per sempre”. In un universo caratterizzato dal “panta rei” l’uomo si ritrova spaesato. Che senso ha dare un nome alle cose se quelle cose cambiano initerrottamente? Straniero in terra straniera l’eroe jodorowskiano non può fare altro che tendere alla conoscenza. Aspirare a qualcosa che non potrà appartenergli nella misura in cui non potrà essere raggiunta.
Le concezioni temporali che si intrecciano nel cinema di Jodorowsky sono due. Una sostanzialmente cristiana/lineare, l’altra alchemica/circolare. Con l’arte culinaria che gli è propria il regista riesce a miscelarle abilmente riuscendo a trarre vantaggio dalla concomitanza paradossale di entrambe. I suoi film/viaggi sono calati in questa ambigua e promiscua concezione temporale. Vi è senza dubbio un punto di partenza da cui prendere l’avvio, un percorso (una via crucis), e un traguardo da raggiungere. Ma, come abbiamo visto, il punto d’arrivo si svolge ad un livello che è assimilabile con un nuovo punto di partenza. È una sorta di resurrezione metafisica che presuppone un nuovo inizio e un nuovo viaggio. Come l’universo in cui vive, l’eroe jodorowskiano non può fermarsi, ma solo porsi nuovi obbiettivi10“C’è una storia che dice: quando due persone si incontrano, quell’unione crea un angelo. E quell’angelo dura per un certo lasso di tempo e poi sparisce. Penso che ognuno, ogni incontro produca un angelo. Quest’incontro per esempio ha prodotto un angelo. E quando qualcosa di nuov entrerà in questa stanza, l’angelo cambierà. (…) quando hai trovato qualcuno con cui hai avuto un intenso rapporto, e te ne vai, l’angelo che avete creato – cioè il figlio della vostra relazione – muore. E se incontri di nuovo la persona che con la speranza di trovare quell’angelo, sbagli e uccidi il rapporto. Stai cercando il passato. Dovete incontrarvi come due neonati e creare un angelo nuovo. E lavorare duro come prima. Come dice Eraclito «Non puoi bagnarti due volte nello stesso fiume». Il tuo fallo non può entrare due volte nella stessa vagina, giusto? Perché il tuo fallo è già cambiato.” A. Jodorowsky, El Topo…, op. cit. p. 36. E che sia concretamente lui a farlo o la sua progenie, o i suoi discepoli non ha importanza.
La tripartizione che contraddistingue tutte le pellicole dell’autore non è casuale.
Fando y Lis | El Topo | La montagna sacra | Santa Sangre | Il Ladro dell’arcobaleno | |
Tesi | Canto primo | Il colonnello | L’infanzia nel circo, la tragedia e la fuga | L’infanzia nel circo, la tragedia e la fuga | Discesa nelle fogne |
Antitesi | Canto secondo | I quattro maestri | La torre dell alchimista | La vita di coppia tra madre e figlio e i delitti della Fenice fino all’ uccisione della Santa | Rapporto con Meleagre, diluvio e morte di Meleagre |
Sintesi | Canto terzo e epilogo | La città di dio | La spedizione verso l’isola del Loto | Epilogo catartico | Rinascita e catarsi di Dima |
Presente, passato e futuro altro non sono se non i modi della coscienza umana. Modi inarrestabili e categorie instabili che invano tentano di definire il reale. È il tentativo di percepire e comprendere la continua trasformazione del mondo (fenomenico e noumenico). È l’Alchimista che insegna al ladro in The Holy Mountain : “Taci! Non c’è morte ma solo trasformazione.” I mandala11I cerchi magici rituali utilizzati come strumento di meditazione sia nel lamaismo che nello yoga tantrico., ricorrenti nell’iconografia del regista, sono il simbolo ancestrale perfetto12Participio passato del verbo perficere che sta a indicare la completezza nella geometria temporale jodorowskiana. È lui stesso infatti a sostenere: “La vita è come un circo. È un cerchio dove Dio ride. Quando accetti questo cominci a danzare. Io ballo il valzer con la morte”13Citazione riportata da Massimo Monteleone, op. cit. p. 56. Ed è il circo/cerchio della vita che mette in scena il regista. È l’ouroboros, il rettile arrotolato che si morde la coda, che si ciba del proprio passato per generare il proprio futuro. “Il simbolo cosmico della totalità androgina primordiale, il cerchio dell’inconscio, la massa confusa, il grembo creatore o utero universale.”14Massimo Monteleone, op. cit., p 55
Proprio in questo senso il tempo ideale di Jodorowsky è l’imperfetto. Tutti i suoi film sono coniugati in quel tempo nella misura in cui non sono terminati. Ogni sua pellicola non è compiuta in tutte le sue parti; manca programmaticamente di una qualità propria della sua natura. Sono azioni, esseri, visioni sostanzialmente incompiute nel passato e che si lanciano verso un futuro tanto ignoto quanto prevedibile. Si potrebbero definire come loop filmici, intenti a ruotare su se stessi all’infinito. Come installazioni autoreferenziali, le sue pellicole, potrebbero proiettarsi ad infinitum, giuntandone la fine e con l’inizio. Il risulato sarebbe un ouroboros al nitrato di cellulosa che ben rappresenterebbe l’animale simbolo di Jodorowsky: il suo totem.
Ma una concezione temporale dove passato e futuro coincidono (l’alfa/omega) è solo il presente che esiste. “Mi attira il presente” sostiene infatti Jodorowsky. “e nel presente io mi estendo il più lontano possibile verso il passato, e il più lontano possibile nel futuro. Allargo la mia immaginazione in tutte le direzioni partendo dal presente, allungandomi indietro così come in avanti. Nietzsche ha detto che è come essere un albero. L’albero cresce in due direzioni, nella terra attraverso le radici e orizzontalmente – cioè nel presente – attraverso i rami.
Io mi occupo di crescere in ogni direzione con la mia immaginazione e il mio pensiero”15cfr. nota 58, op. cit. p. 71. Tutta la sua produzione risulta così giustificata. È una forza paradossalmente duplice – centrifuga e centripeta – che lo sprona a creare mondi fantascientifici costruiti su elementi antichissimi, dal sapore arcaico ed esoterico di una pergamena alchemica. Tutto ruota attorno al presente perché “è una cosa che puoi cambiare, è trasformabile come una finestra. Posso inventare qualunque forma per eliminare la finestra o cambiarla. Il termosifone per esempio. Lo stringo così e comincia a fare musica come una fisarmonica. Può avere gli occhi e le orecchie come una persona che ti guarda e a cui puoi parlare.”16cfr. nota 60 Uno spettatore, dunque, che ti guarda e cui puoi parlare. C’è qualcosa di più idoneo del cinema per esprimere questa promiscua temporalità?
Il fotogramma ferma il tempo. Lo imprigiona negando concretamente l’esistenza di un movimento. È un non-tempo per eccellenza. È la stasi, immobile e immutabile per sua stessa natura. Ma un insieme di singoli fotogrammi in successione, grazie all’incantesimo cinematografico, acquistano magicamente l’illusione del movimento e l’orologio immobilizzato e silente nel fotogramma, sembra ricominciare il suo monotono ticchettio. Il cinema di Jodorowsky miscela, così, la stasi della temporalità circolare al mutamento perenne della temporalità lineare. L’eterno presente dell’ouroboros pagano all’escatologia religiosa cristiana.
Con il cinema Jodorowsky supera anche l’impasse dell’effimero teatrale17E’ interessante ricordare che fra le sue opere teatrali più interessanti ci siano proprio “27 Effimeri Panici”, ideati e messi in scena dallo stesso Jodorowsky durante il periodo di militanza nel movimento Panico.. Ha la possibilità di riproporsi in un eterno presente sempre uguale a se stesso e sempre diverso. È la perfetta cristallizzazione del reale di fronte alla quale gli spettatori possono ri-conoscersi attraverso un rinnovamento ed una trasformazione che avviene al di fuori dello specifico cinematografico. Ciò che interessa al regista è la responsabilizzazione dello spettatore. Se il film rimane sempre uguale a se stesso è la coscienza di chi lo fruisce che, mutando nel tempo, lo percepirà in maniera sempre differente. In sostanza non potrà mai vedere lo stesso film. L’obbiettivo è mettere in crisi la coscienza di chi guarda attraverso paradossi, esagerazioni, orrori e provocazioni.18Un obbietivo assimilabile completamente a quello Panico. Infatti nonostante già nel 1974 Jodorowsky si dichiari “anti-panico” in verità è impossibile per la sua personalità liberarsi completamente di quell’atteggiamento che lo accompagna tuttora con tutta la sua forza totalizzante e con tutte le sue contraddizioni. Rimandiamo per maggiori delucidazioni al capitolo ad esso dedicato.
Tratto da Jodorowsky errante – Viaggio nel cinema di Alexandro Jodorowsky di Emanuele Bertolini, 1999